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Tumori ereditari: una riflessione

Gianni Saguatti - Ausl di Bologna

14 giugno 2013 - Due film di qualche anno fa ci raccontano, da prospettive diverse, l’istinto per la sopravvivenza. Il film “127 ore” ricorda la straordinaria vicenda dell'alpinista Aron Ralston che, rimasto imprigionato da un masso caduto sul suo braccio in un canyon isolato dello Utah, nel corso di cinque giorni scopre di disporre di sufficiente coraggio per liberarsi amputandosi il braccio imprigionato. Il film “Il piccolo grande uomo” racconta invece di un animaletto che si libera da una tagliola amputandosi con i denti la zampa intrappolata.

Si tratta di esempi che in qualche modo si muovono a cavallo tra realtà e “verità cinematografica”, un ossimoro che forse ben si attaglia anche alla vicenda di grande attualità della nota attrice statunitense Angelina Jolie che, nella consapevolezza di rischio genetico, ha deciso per mastectomia e ovariectomia profilattiche.

Questo per dire sin da subito che mi pare essere riconoscibile, in una scelta di questo tipo, una traccia biologica che assomiglia all’istinto di sopravvivenza e non appare, dunque, riconducibile (o almeno non unicamente o non direttamente) a determinanti culturali o sociali. Sui media prevale invece un approccio culturale (in particolare su quelli di divulgazione, che più fanno opinione) nelle valutazioni e nei commenti, siano essi a favore o contrari. E facilmente si trovano maestri di etica pronti a dettare le linee di comportamento, quando, ancora una volta, va assolutamente preservata la possibilità di ognuno di scegliere per sé, fatta salva la necessità di informazione dettagliata e completa sui termini del rischio personale.

Va da sé che non è dato sapere quanto questa informazione potrà essere esaustiva. I protocolli di sorveglianza suggeriti per il rischio eredo-familiare sono, per quanto simili, numerosi come le Società scientifiche che li propongono e anche la modalità di calcolo del rischio non è univoca. La auspicata creazione di un tavolo di consenso porterà necessariamente a conclusioni mediate e mediane che forniranno un vademecum ai clinici e (forse) un orientamento alla popolazione, lasciando però al tempo stesso inevitabilmente le singole donne alle prese con un problema individuale che come tale rimarrà sulle spalle di ognuna di loro.

Verrebbe da considerare opportuno, in questa scia, ascoltare soprattutto le donne e i loro pareri. Infatti, se l’argomento è su molte bocche, molte di queste sono bocche di uomini. E, tra questi, molti argomentano senza neppure sapere bene cosa e quanto significhi per alcune, in termini di ansia, sottoporsi a controlli diagnostici standard, ancora ben al di fuori di ipotesi di rischio individuale, quando la malattia è un’ipotesi remota e non una possibilità effettiva.

Ma, come è naturale che sia, anche le opinioni femminili divergono, se assumiamo come emblematiche le posizioni – per stare tra quelle apparse o citate - di Peggy Orenstein (“Our Feel-Good War on Breast Cancer”, sul New York Times, tradotto su Internazionale) e di Margherita De Bac (“Le buone intenzioni di Angelina Jolie possono far male alle donne normali”, Corriere della sera).