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Addio a Stefano Ciatto

Stefano Ciatto è morto venerdì 4 maggio in un incidente automobilistico.

È difficile per me ricordarlo: conoscevo, ho lavorato, ho imparato, ero amico di Stefano da più di vent’anni. Verrebbe voglia di abbandonarsi al ricordo dei molti momenti comuni, che invece è bene che restino in un territorio privato.
E poi è difficile trovare un tono appropriato: Stefano era un personaggio un po’ leggendario e c’è il rischio di farsi travolgere.

Eppure Stefano ha rappresentato qualcosa di fondamentale per lo sviluppo dei programmi di screening e più generalmente della cultura dello screening. Questo non solo perché è stata una delle prime persone in Italia a occuparsene, uno dei primi a pubblicare di screening su importanti riviste. E neanche perché è stato uno dei fondatori sostanziali del Cspo.
No, credo che sia stato fondamentale per il mondo dello screening perché rappresentava nella sua persona le qualità migliori che dovrebbe avere il mondo dello screening. Cioè la capacità di tenere insieme la ricerca sulla migliore evidenza scientifica con l’attività clinica senza soluzione di continuità. Cioè la ricerca di comportamenti che si basassero su una razionalità complessa, ma esplicita. Era incredibile la sua capacità di ipotizzare un quesito scientifico e di cercarne una risposta (oltre che sui dati di letteratura) nel disegno e nell’esecuzione di uno suo proprio studio. E quando trovava conferma alla sua ipotesi immediatamente modificava il suo comportamento da clinico. Tanto veloce da risultare addirittura vorticoso in qualche momento e difficile da seguire. Non esisteva (o per lo meno ora non ricordo) che dicesse: «pensiamoci, vediamo, aspettiamo un po’». Non apprezzava gli atteggiamenti dubbiosi: la ricerca andava fatta subito, il risultato immediatamente pubblicato, il protocollo clinico doveva mutare conseguentemente.
Altrettanto incredibile risultava la sua capacità di lavoro: gli avevo detto una volta (aveva sorriso) che, come Rambo, rappresentava un argomentazione contro l’utilità degli eserciti. In questa sua velocità sembrava, a volte, non riuscire a capire le lentezze, le difficoltà, i dubbi del mondo circostante, anche degli amici, e spesso manifestava la sua insoddisfazione per come andavano le cose. Ma credo fosse un suo modo di porsi, il modo che riteneva più utile per spingere in avanti la situazione.
La cosa che gli piaceva di più era l’insegnamento: era dove riusciva a manifestare meglio la sua generosità e la sua creatività. Le sue lezioni erano chiarissime e divertenti.
Amava la provocazione: era il suo modo di stabilire quei punti di cesura che dovevano essere chiariti nel ragionamento e soprattutto nei comportamenti. Era uno stile che derivava, come dire, da un atteggiamento didattico. Non tutti riuscivano a comprenderlo e questo suo atteggiamento sollevava a volte scontri. Recentemente mi aveva riferito che lo consolava il fatto che quelle stesse persone con cui aveva avuto scontri epici gli riconoscessero, con il passare degli anni, la sua onestà intellettuale.
Era e si definiva un radiologo, molta della sua attività si è concentrata sulle problematiche legate alla diagnosi precoce e allo screening del tumore della mammella. Ma aveva molto contribuito alla ricerca (nel senso che dicevo prima di nuova conoscenza e modifica delle attività) nel campo dello screening cervicale e colo rettale.
E infine fondamentale per il nostro Paese si è rivelata la sua ricerca sulla diagnosi precoce del tumore della prostata. Spero che si trovi il tempo e lo spazio per una riflessione meditata sul filo della sua attività di ricerca.

È morto nel pieno della vita. Sicuramente avrebbe potuto dare ancora molto, stava progettando nuovi studi. Eppure ho questa strana sensazione (che spero possa essere motivo di consolazione per le persone che gli volevano bene) che nel contempo avesse già dato tutto. Cioè aveva realizzato tutto quello che si era proposto di fare. Di lui mi ricordo ora un lungo viaggio in macchina verso Tolosa per raggiungere il Gruppo europeo della prostata. Aveva lasciato Firenze, ci vedevamo e sentivamo ormai raramente. I nostri viaggi avevano una struttura che si ripeteva: iniziavamo con la discussione dei progetti di lavoro in corso, poi si passava a raccontarci delle persone che conoscevamo, poi, infine, rimaneva un silenzio interrotto ogni tanto da osservazioni sul paesaggio così come capitava. Il suono di quel silenzio mi stordisce un po’ in questi giorni.

Marco Zappa