Ritorna il tema della sovradiagnosi nell’offerta dello screening organizzato della mammella. Nel corso della scorsa estate, infatti, il sito del Gisma ha segnalato l’articolo “As you like it, come gli stessi dati possono supportare diverse rappresentazioni della sovradiagnosi nello screening mammografico”, a firma di Sisse Njor, Eugenio Paci e Matejka Rebolj, pubblicato sull’ International Journal of Cancer.
A quell’articolo ora fa seguito un lungo e interessante commento di Caterina Ferrari, esperta in bioetica, a cui segue una risposta di Eugenio Paci. Il tema continua a suscitare, dunque, riflessioni e dibattito.
Possibilità e limiti di un discorso sulla sovradiagnosi – Caterina Ferrari
Un punto specifico dell’articolo di Njor, Paci e Reboli, mi ha suscitato qualche riflessione e alcune perplessità che vorrei condividere con gli autori e con tutti gli interessati del mondo dello screening mammografico. Là dove afferma: "When women make decisions on screening partecipation overdiagnosis is one important parameter to consider". Evidentemente un punto marginale nell’articolo, ma un elemento importante della cornice entro cui si colloca.
La stima del tasso di sovradiagnosi è sicuramente un elemento fondamentale per decidere sull'opportunità o meno dell'implementazione di un programma di screening mammografico, ma può esserlo anche per la persona, nel caso la donna, per decidere se accettare o meno l'invito?
Per mettere la questione nei suoi termini essenziali: sappiamo che qualunque atto medico può portare oltre che i benefici attesi anche effetti negativi non voluti, e questo vale anche per i test di screening. In particolare per lo screening mammografico accanto ai benefici (innanzitutto in termini di vite salvate) ci sono i possibili danni di cui la sovradiagnosi è sicuramente il più grave.
Contrariamente a quanto avviene per altri effetti non voluti, però, la sovradiagnosi in quanto tale non è riconoscibile nelle sue singole occorrenze. Questa è ormai un'ovvietà per gli addetti ai lavori, anche se non lo è per il resto del mondo, ma è un'ovvietà che ha alcune conseguenze paradossali. Infatti contrariamente a quello che avviene per altre interventi di popolazione (esempio tipico le campagne vaccinali, che infatti non solo prevedono la sorveglianza sugli eventi avversi, ma anche la possibilità di chiedere un risarcimento per chi abbia subito danni gravi a seguito di un vaccino) in questo caso non si è in grado di distinguere i soggetti che ne hanno tratto il maggiore beneficio (vita salvata) da quelli che invece ne sono stati gravemente danneggiati (sovradiagnosi).
E mentre l'informazione fornita al momento dell'invito sui falsi positivi, falsi negativi e cancri d'intervallo ha un'utilità diretta, anche se probabilmente non tanto per decidere se partecipare o meno quanto per capire e "gestire" adeguatamente i risultati dell'esame (contenere l'ansia nel caso di risultati positivi o evitare un'eccessiva rassicurazione in caso risultati negativi), l'informazione sulla sovradiagnosi non ha alcuna utilità nel caso di un risultato negativo e può addirittura diventare un fattore disturbante nel caso di una diagnosi di cancro. La consapevolezza di "averlo preso in tempo" infatti è qualcosa che aiuta ad affrontare il doloroso percorso della malattia, ma simmetricamente quanto può essere devastante il dubbio che, magari, se non si fosse accettato l'invito la vita sarebbe continuata tranquillamente "come prima"?
Si dirà: l'informazione sul rischio di sovradiagnosi infatti non serve alla donna per la "gestione dei risultati" ma per decidere consapevolmente se partecipare o no. In linea teorica è difficile essere in disaccordo, ma nei fatti c'è un'ulteriore questione che si pone: cosa realmente può essere comunicato sulla sovradiagnosi all'interno di un programma di screening?
Ci sono due ordini di problemi che evidentemente si sovrappongono ma che forse è utile affrontare separatamente: il contesto entro cui l'informazione viene data e il contenuto dell'informazione.
Il contesto
Un programma di screening è un'azione di salute pubblica offerta a una popolazione, non un atto medico rivolto a un singolo individuo e in genere su sua richiesta. Ora è vero che una popolazione non è un'entità astratta che sussiste a prescindere dalle persone che la compongono, ma è vero anche che non sempre può essere trattata come la somma delle persone che la compongono. Ad esempio è solo a livello di popolazione che è possibile una stima dei principali esiti, positivi e negativi (numero di vite salvate/numero di sovradiagnosi) di un programma di screening mammografico, che appunto a livello individuale non sono neppure distinguibili. E l'avere come obiettivo dell'azione una popolazione ha inevitabili implicazioni anche per quanto riguarda gli strumenti per, e le possibilità di, una corretta comunicazione.
Almeno in linea ideale nel contesto clinico l'attenzione verso la specificità delle persone - e quindi anche verso i loro bisogni conoscitivi, che non sono tutti uguali e che variano anche nel tempo e nelle situazioni - è possibile e doverosa. È fin troppo ovvia a questo punto l'obiezione che spesso la realtà quotidiana è ben lontana da questo ideale, ma se appunto si tratta di un ideale difficile da realizzare anche all'interno della relazione terapeutica tra medico e paziente, non si può non riconoscere che ancora più difficile diventa realizzarlo all'interno di un programma di screening, che inevitabilmente deve definire i suoi strumenti comunicativi in certa misura a prescindere, e comunque prima del confronto con le specificità e i bisogni di informazione delle singole persone invitate (e lasciamo per ora da parte la valutazione dei tentativi di comunicazione personalizzata messi in piedi negli ultimi anni).
C'è poi un ulteriore elemento di complicazione: se nel contesto clinico l'obiettivo della comunicazione tra medico e paziente è, o almeno dovrebbe essere, quello di far sì che ognuno quando deve affrontare scelte critiche su benefici e rischi di un atto medico abbia gli strumenti per decidere cosa è bene per lui, nel presupposto ormai riconosciuto dall'etica medica che non esiste un "bene oggettivo" che possa essere stabilito dall'esterno, nel caso di un programma di screening, come di qualunque intervento di salute pubblica, l'obiettivo è un "bene della collettività" che è stato oggettivamente individuato (nello specifico la riduzione della mortalità per cancro al seno) anche con una valutazione dei possibili effetti negativi. Su questo presupposto uno dei problemi con cui si scontra chi si occupa di comunicazione nei programmi di screening è come fare in modo di informare anche sui possibili effetti negativi del test senza far diminuire (o almeno non troppo) la partecipazione, che è non solo un fattore determinante per la validità dell'azione ma anche condizione di equità nell'uso delle risorse del sistema sanitario. Questa è un'ambivalenza, se non una contraddizione, probabilmente ineliminabile ma che proprio per questo andrebbe riconosciuta e considerata, e che credo non possa essere elusa con scorciatoie - a mio avviso eticamente discutibili - come l'uso di strumenti di nudging per condizionare e ridurre il possibile impatto negativo alle informazioni fornite.
I contenuti
Il dato relativo al tasso di sovradiagnosi nei programmi di screening è un dato ricavabile solo attraverso assunzioni metodologiche complesse e difficili da capire anche per molta parte degli operatori sanitari, ed è un dato su cui forse non è possibile arrivare a conclusioni definitive.
Inoltre queste assunzioni sono controverse anche tra gli addetti ai lavori e incidono pesantemente sulla valutazione dell'entità del fenomeno. È corretto fornirne una stima numerica? E se sì ci si deve limitare a fornire solo le stime considerate più attendibili oppure si deve dare conto della complessità di queste assunzioni? E se si deve, è realmente possibile farlo? Si deve riportare anche la discussione che c'è tra gli addetti ai lavori? E di nuovo, se sì, come?
Il passaggio dal dato statistico sull'incidenza di un fenomeno in una determinata popolazione alla probabilità che il fenomeno si verifichi per un singolo definito individuo, è un passaggio concettualmente problematico. In genere avviene, in modo più o meno esplicito, trasformando una percentuale misurata, o stimata come nel caso della sovradiagnosi, su una popolazione in una probabilità individuale. Ma davvero la stima, ad esempio, di una sovradiagnosi per 2.500 donne invitate può essere tradotta sul piano individuale come: "io che sono stata invitata allo screening ho una probabilità su 2.500 di essere trattata per un cancro di cui altrimenti non mi sarei accorta"? O non si deve piuttosto riconoscere che una valutazione del rischio individuale in realtà richiederebbe di considerare una varietà ben maggiore di elementi?
Il concetto stesso di sovradiagnosi è per molti aspetti controintuitivo, e lo è ancora di più stante le continue, e a volte aggressive, campagne sui benefici della diagnosi precoce da parte di soggetti privati, istituzionali o semistituzionali (penso ad esempio alla discutibile campagna "fatele vedere" fatta da una sezione della Lilt, o l'iniziativa "Frecciarosa" realizzata da Ferrovie italiane e pubblicizzata sul numero di ottobre della rivista delle Frecce) e in generale nel contesto di un "discorso pubblico" sulla prevenzione incentrato sull'attenzione verso il proprio corpo e su una retorica dell'azione individuale dei cui aspetti negativi credo non si stia ancora parlando abbastanza.
E così mentre da una parte si bombardano le donne con messaggi sull'importanza della diagnosi precoce e dei controlli, dall'altra nel momento in cui le si invita, e solo nel momento in cui le si invita, viene detto loro: "noi ti chiamiamo, però guarda che non è che l'anticipazione diagnostica sia sempre un bene". (Spero venga scusato il grassetto, ma credo che questo sia un punto cruciale: non sarebbe doveroso innanzitutto rivedere e ripensare l'attuale retorica della prevenzione?)
Insomma, i punti interrogativi sono molti. Non si tratta di un espediente retorico, è che davvero, da utente ma probabilmente più "informata dei fatti" della media delle utenti, mi è inevitabile pormi il problema di come certe forme e certi contenuti comunicativi possano essere realmente fruiti dai destinatari. In altre e più brevi parole: l'obiettivo di avere un'adesione consapevole all'invito è assolutamente condivisibile ma si tratta di capire se e in quale misura sia raggiungibile.
E allora spero sia accettata un'ultima domanda: davvero si pensa di poter dare all'interno di un programma di screening una informazione tale da permettere alle donne invitate di fare una seria valutazione del rischio di sovradiagnosi? Forse questo è possibile nel caso di donne particolarmente attrezzate e motivate e con tempo ed energie a disposizione, e certo è doveroso, anche se complicato, fare in modo che chi chiede maggiori informazioni le possa ottenere. Credo però che per la grande maggioranza delle persone, tra cui peraltro mi colloco, la scelta di accettare o meno l'invito dipenda da una varietà di fattori difficilmente riportabile ai parametri della decisione razionale. L'invito è unico ma le persone che lo ricevono hanno ognuna il proprio vissuto, il proprio background culturale, e poi ci sono le contingenze della vita che variano ecc... E alla fin fine forse il fattore determinante è la fiducia verso le istituzioni, in questo caso la sanità pubblica, da cui l'invito parte.
È sicuramente importante una trasparenza sugli aspetti problematici dei programmi di screening, così come è importante una responsabilizzazione di tutti i soggetti interessati quando si tratta di scelte controverse, ma questo non può avvenire (solo) sul piano individuale, quando io devo decidere per me, ma (anche e soprattutto) sul piano pubblico, e una delle condizioni perché questo avvenga è che ci sia la capacità di portare avanti un discorso sulla salute che sia in grado di liberarsi da facili anche se rassicuranti retoriche e di rafforzare o ricreare una meritata fiducia verso la sanità pubblica.
La discussione sulla sovradiagnosi come modello dell’offerta di screening – Eugenio Paci
Il bel commento di Caterina Ferrari propone riflessioni di grande interesse, affrontando temi certamente per tutti noi molto complessi e per molti versi non risolti. Discuto alcuni punti.
Informare per decidere se accettare l’invito allo screening
L’attenzione che le persone rivolgono alla salute, specie quando sono giovani, è necessariamente limitata. Vi è in ogni caso un diritto/dovere all’informazione sulle tecnologie mediche: l’infomazione va offerta, anche se non richiesta. Questo non avviene come dovrebbe, anche nel servizio pubblico: spesso l’informazione è promozionale, mira più a convincere che a informare. Vi è certo carenza di competenze e attenzione, non solo nel mondo degli screening (che pure da tempo si confrontano su questo) ma nella medicina in generale. La mia risposta è: sì, bisogna informare al momento dell’invito a partecipare a un programma di screening, e nella maniera migliore possibile. Spesso è l’unico momento in cui una donna riesce a concentrarsi sulla questione, non si può perdere. Il fatto che la donna possa decidere di non partecipare è ragionevole e giusto, il problema è capire se l’informazione, per come è proposta e comunicata, genera inutile paura e non conoscenza, e, quindi,se è adeguata. Non sono convinto (ma ci sono studi in corso) che più informazione significhi più rifiuti. Se la comunicazione è intesa come la condivisione di quello che il servizio pubblico assume, con adeguate basi scientifiche, essere il rapporto danni/benefici, allora non credo ci sia da preoccuparsi. Ci vuole sempre molta fatica per costruire un rapporto di fiducia che è la base dell’offerta di un servizio per la salute. Sulla mammografia di screening, nonostante le controversie, si ha alle spalle una decisione tecnico scientifica solida, condivisa a livello nazionale ed europeo, per la quale si ritiene corretto proporla ai cittadini.
Individuo o comunità?
La peculiarità dei moderni programmi di screening oncologici è che sono centrati sull’individuo ma in un contesto di sanità pubblica. L’offerta è per l’individuo, ma attenta ai bisogni di comunità. Non penso che il contesto clinico per la diagnosi precoce offra una attenzione particolare alla specificità delle persone e spesso il contesto clinico favorisce una offerta di prestazioni non raccomandate scientificamente. Il servizio che si rivolge alla comunità ha le stesse premesse tecnico scientifiche di quello che offre uno screening spontaneo: ambedue forniscono, in termini ideali, interventi efficaci con la migliore qualità possibile. In più lo screening di sanità pubblica si propone di raggiungere tutti i destinatari in una popolazione con una prestazione omogenea e di qualità. Insomma, ha anche un obiettivo egualitario. I benefici e i rischi conseguenti all’usufruire della mammografia di screening sono misurati sugli esiti per la comunità sia nel contesto della sanità pubblica che nello screening spontaneo (come avviene negli Stati Uniti).
La differenza è che, in Europa, la presenza dei programmi di screening organizzati favorisce una corretta valutazione degli esiti: una stima imperfetta, ma comunque la migliore stima quantitativa del rischio/beneficio per la persona. Il più delle volte una bassa partecipazione è un indicatore di un programma che non riesce a coinvolgere la popolazione, la questione della scelta informata si pone di più, quindi, nelle realtà dove la scelta di partecipare è alta. Comunque, per chi come individuo sceglie di partecipare e se il programma è di buona qualità, il beneficio e anche i rischi ci sono. Oggi, molte persone accedono a una immensa mole di informazioni, quando vanno dal medico per una diagnosi precoce sanno già da soli cosa dovranno fare. Il mondo della comunicazione è cambiato per tutti ed è oggi molto più omogeneo nel bene e nel male. Una donna oggi legge una rivista, trova che si usa una nuova tecnologia, diciamo la tomosintesi. Se è convinta e può spendere, trova le sue strade per averla. Le viene davvero spiegato di più rispetto a quanto viene detto a chi partecipa a un programma di screening mammografico? Io non credo. L’ offerta privata di tomosintesi di screening è il frutto di una arretratezza dell’offerta pubblica, come spesso appare sulla stampa, oppure del fatto che ci sono innovazioni di cui ancora non siamo in grado di valutare a pieno i risultati e gli effetti collaterali? Io credo che sia vera la seconda ipotesi, almeno finora. Ecco un esempio, uno dei tanti, della disconnessione tra la spinta al consumo, sorretta dalla comunicazione, e l’esigenza della fondatezza scientifica degli interventi medici, che è il vero problema della medicina di oggi. È un dato della nostra società, con il quale è necessario fare i conti. La donna ha diritto all’ ascolto quando affronta uno specifico problema e di porre domande, ma anche di non esser invasa troppo con problemi che non le interessano. C’è il diritto a non partecipare, e c’è il diritto ad avere l’informazione che si vuole, a rifiutarne di più se si preferisce fidarsi. Non è la sede lo screening per spinte gentili (nudge) ipocrite (cioè fatte per favorire surrettiziamente la partecipazione), ma è giusto facilitare l’accesso (questo è l’obiettivo dell’invito, che deve portare con sé una adeguata informazione) e permettere di scegliere se aderire o no (inclusa la possibilità di non scegliere o di affidarsi alla proposta di cui ci si fida). Questa oggi si chiama una buona architettura delle scelte, e richiede che le scelte a monte dei portatori di interesse e degli esperti siano basate sulla scienza e sulla condivisione trasparente delle raccomandazioni che vengono date.
Se è un cancro, perché si parla sovradiagnosi?
Il termine “effetto negativo” è molto ampio ed è quindi giusto distinguere, come suggerisce Ferrari. Un richiamo per accertamenti dopo un test di screening può risolversi con un semplice particolare radiologico. Diverso se si arriva ad una biopsia. La sovradiagnosi, invece, evoca qualcosa di magico, che rimanda al sovrannaturale. Perlopiù è un termine che mette paura o suscita stupore per qualcosa che non si capisce. Questo termine fino agli anni Novanta era stato usato solo tra gli addetti ai lavori ed è legato a doppio filo al sovrattramento (anche se quest’ultimo è un fenomeno più ampio e più comprensibile). Divenuta famosa negli anni novanta in relazione allo screening con PSA del tumore della prostata, la sovradiagnosi è riferita in oncologia solo a casi di tumore o lesioni pre- tumorali ed è valutabile in studi di lunga durata.
Va quindi sgombrato il campo da altre cose che sono importanti, ma non c’entrano niente, come i risultati falsi positivi o le diagnosi incidentali dopo un test, o addirittura un uso ampio della parola in quanto evocativa di medicalizzazione (esami inutili o selvaggi, cioè senza regole). Indebolire i significati, significa confondere le idee alle persone, un risultato disastroso. La sovradiagnosi è una stima statistica, come scrive Ferrari, dell’eccesso del numero di persone malate di tumore al seno dopo un lungo periodo di osservazione, rispetto a quanto ci si aspetta, dopo diversi anni, in assenza di screening mammografico. Non sappiamo chi delle donne che hanno ricevuto la diagnosi di tumore al seno soffre per un tumore sovradiagnosticato.
Invertire la prospettiva aiuta a capire: metterci nei panni della donna e del clinico nel momento della diagnosi. Si paga un prezzo immediato (il test, l’accertamento, la terapia) pensando che questo valga la pena al fine di avere un beneficio domani. Una logica di tipo assicurativo dice che, se oggi pago un premio per un viaggio all’estero, è perché penso che, se succede qualcosa, le spese che dovrò sostenere saranno coperte. Se magari ho un incidente prima di partire, ho pagato quel premio inutilmente e se non mi succede niente durante il viaggio ho comunque sofferto la spesa. Anche nelle attività di prevenzione come nella diagnosi precoce, o nella terapia, si rinuncia o si patisce qualcosa in vista di un beneficio futuro, ma tutto potrebbe essere stato inutile! È la ricerca scientifica che ci indica se effettivamente gli interventi che vengono proposti fanno prevedere un buon rapporto danno/ beneficio (meno decessi per la malattia). Su questa base la persona potrà valutare se vale la pena di rinunciare, magari al piacere della sigaretta o al disagio di sottoporsi a un test di screening. Oggi con la tecnologia diagnostica, troviamo lesioni in una fase in cui i tumori sono ancora molto precoci, cioè prima che appaiano i sintomi clinici. Si tratta di tumori maligni, a tutti gli effetti, che dimostrano una variabilità nell’aggressività, espressione della loro caratteristica biologica e anche della interazione con il soggetto. Queste caratteristiche sono ad oggi ancora poco conosciute e oggetto di importanti ricerche. Quindi sappiamo che esistono diversi tipi di tumore maligno ma non sappiamo abbastanza per sapere quanto è aggressivo proprio quello che ha colpito la donna di fronte a noi. Conosciamo molte caratteristiche, dal profilo genico alla positività di marcatori, ma questo non ci basta per dire che si può evitare di trattare con la terapia usualmente raccomandata. Bisogna essere sicuri di non far danni, prima di proporre di ridurre i trattamenti o la sorveglianza per persone che hanno un tumore al seno (di questo si parla, non si parla di terapie fatte a donne che non hanno il tumore!). Chi rinuncia e magari avrebbe avuto una diagnosi di un tumore precoce trovato allo screening, ha un rischio che il tumore cresca fino a dare sintomi, forse una aumentata probabilità di morirne.. Questo ci dicono gli studi sperimentali: è una legittima rinuncia al possibile beneficio (evitando cosi i danni potenziali). La sovradiagnosi è un danno di cui è importante che una donna sia bene informata prima di fare lo screening, perché è prima che la eventuale scelta di non sottoporsi al test è maggiormente praticabile. Infatti, al momento della diagnosi di un tumore, anche di piccole dimensioni, la situazione emotiva cambia e ogni scelta, come è intuitivo, è più lacerante. È una responsabilità delle istituzioni non raccomandare test che hanno un rischio di sovradiagnosi elevato e un rapporto beneficio/danni poco soddisfacente. È il caso dello screening con PSA del tumore della prostata, che nessuna agenzia governativa in Europa ritiene di raccomandare come test di screening. (Ciononostante è uno dei più diffusi, ma questa è un’altra storia.)
È utile comunque sapere della sovradiagnosi anche se si partecipa allo screening, perché così si giustificano i limiti nell’uso della tecnologia. Per esempio fino a che età sottoporsi al test (oggi spesso fino a 75 anni). Una donna informata sui possibili danni dello screening può meglio comprendere perché nei programmi di sanità pubblica non si indulge a fare prestazioni in eccesso, cioè esporre a prestazioni che non si ritengono giustificate scientificamente e che, come tutte le prestazioni mediche, hanno dei rischi.
In condizioni di salute precaria ed età avanzata, il rischio di sovradiagnosi è maggiore, essendo verosimile che la donna abbia altri importanti motivi di malattia, talora una ridotta aspettativa di vita, che non giustificano di intraprendere la strada lunga e faticosa della diagnosi e terapia di un tumore in fase precoce. Tutti aspetti che devono essere affrontati dalla donna con il proprio medico di riferimento, un medico che sia competente su questi temi.
Comunicare i danni, qualità e quantità
Conoscere la stima statistica del possibile beneficio e del danno dello screening mammografico, può mettere in condizione la singola donna di decidere, a priori, se accettare o no un invito a partecipare allo screening. Il progetto donnainformata, un trial randomizzato coordinato dall’Istituto Mario Negri, attualmente in corso, prevede l’offerta di informazioni anche sulle controversie esistenti, i principali diversi pareri che alimentano dispute infinite. Nel mondo dei social, con forme decise e spesso promozionali, arrivano tutte le controversie e le dispute in corso, con scarne e unilaterali riflessioni. Vedremo, anche grazie a studi come questi, quale può essere una strada per far crescere una discussione ragionevole. Sicuramente come gestire le controversie scientifiche (e anche quelle con chi si pone fuori dalla scienza, come nel caso dei vaccini) nel nuovo mondo della comunicazione è uno dei più difficili temi di oggi.
Una cosa però è far presente l’esistenza di controversie, altra che è necessario assumere e comunicare chiaramente le raccomandazioni e i dati che giustificano la scelta che è stata fatta. Il programma di screening mammografico è un LEA del servizio sanitario nazionale. Vi sono tanti possibili modi per comunicare nel campo della salute e della medicina (qualitativo, quantitativo, narrativo). L’informazione quantitativa è importante che venga offerta anche se, sappiamo, interessa un numero limitato di persone. Il numero è usato spesso perché trasmette emozioni, spesso per suscitarle. È necessario proporre dei dati, consapevoli di come possono venire letti. In molti casi sono usati da chi vuole trasmettere una sua visione: è un fatto inevitabile, ma bisogna esserne coscienti. Soprattutto è importante che chi fa comunicazione qualitativa o narrativa rimanga agganciato al numero, cioè non venda in eccesso o non sottovaluti in difetto quanto i dati scientifici autorizzano a dire. Comunque, una parte delle persone (forse piccola) vuole anche essere informata più di quanto avviene usualmente, sui numeri dei possibili benefici e possibili effetti negativi. Ne hanno diritto e questa attitudine alla misurazione va aiutata a crescere, non a spegnersi!
Sanità pubblica, clinica e opinione pubblica
Offrire una informazione adeguata tenendo conto dei molti livelli di cultura e interesse, è un impegno molto difficile, su cui siamo sicuramente poco attrezzati. La sanità pubblica affronta molto limitatamente questo bisogno collettivo di informazione e comunicazione ma soprattutto sconta la cultura prevalente, quella che vede solo i lati positivi, di speranza, spesso legati alla promozione dell’innovazione tecnologica. Avere luoghi dove confrontarsi e informarsi non è facile, sommersi come siamo dalle iniziative promozionali, come quelle a cui fa riferimento Ferrari. Lo spazio di incontro della donna con il medico o altro personale sanitario è limitato. Non so se sia proprio un male, le occasioni di (in)formazione dovrebbero essere diverse da un incontro con il medico, con iniziative aperte. L’altra faccia, però, è che oggi si assiste an una progressiva polarizzazione, la crescita di posizioni che si chiudono in sé stesse e rilanciano messaggi di rottura, spesso incentrati sulla sfiducia nelle istituzioni pubbliche. L’offerta di una corretta informazione alla popolazione, a scuola o nei luoghi di lavoro, non è di facile realizzabilità e spesso si finisce per offrire test o visite. Il ruolo di associazioni di donne o di volontariato è molto apprezzato, ma anche in questi ambiti prevale la cultura promozionale più che la riflessione sulla salute. In Europa, come in Italia, non ci sono normative che regolano in generale i test di screening secondo cogenti raccomandazioni istituzionali. Per questo è possibile che vengano offerti test con metodiche e procedure molto diverse e selvagge, senza garantire l’intero percorso diagnostico-terapeutico e conoscerne l’efficacia e i potenziali danni. Riordinare questo utilizzo non si può solo con scelte amministrative o politiche, perché coinvolgono la cultura medica e professionale del sistema sanitario nazionale e regionale che non ha, generalmente, grande sensibilità e capacità di affrontare questi temi. Certamente le controversie scientifiche, specialmente quando escono dal dibattito degli addetti ai lavori per divenire comunicazione mediatica, spesso polarizzata, sono ulteriore motivo di confusione. La conclusione è che la questione è molto più grande della mammografia come test di screening. Importante è rafforzare punti di comunicazione scientifica e istituzionali autorevoli. È necessario che le istituzioni investano in comunicazione, mettendo in modo trasparente in discussione il perché fanno certi servizi come lo screening e motivando scientificamente il proprio operare. Processi decisionali trasparenti e condivisi sulla valutazione dei benefici/costi/danni di una attività medica dovrebbero mirare a orientare, coinvolgendo professionisti, le donne, i portatori di interesse, e aiutando così a uscire dalle certezze esibite nei social o nei media,
Si tratta di accettare che la scienza è imperfezione, ma che non se ne può discutere senza le competenze dei tecnici e il supporto delle evidenze scientifiche.