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International cancer screening network 2023

Dal 21 al 23 giugno 2023 si è tenuto l’annuale meeting dell’International cancer screening network (Icsn), che mira a promuovere e valutare l'implementazione dei programmi di screening oncologici nei vari Paesi attraverso lo scambio di esperienze e metodi al fine di migliorare la qualità e l'efficacia degli screening.
Carlo Senore, epidemiologo del Servizio di epidemiologia e screening del Centro di riferimento per l'epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte (Cpo - Piemonte) e presidente del Gruppo italiano screening colorettale (Giscor), e Livia Giordano, epidemiologa del Servizio di epidemiologia e screening del Centro di riferimento per l'epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte (Cpo - Piemonte), ci illustrano gli obiettivi dell’Icsn, le tematiche principali che sono state affrontate in occasione dell’edizione 2023 del meeting, l’impatto della pandemia di Covid-19 sugli screening e le prospettive future dei nuovi programmi di screening.

1.  Prima di entrare nel dettaglio dell’evento, potreste descriverci gli obiettivi dell’Icsn?
Livia Giordano: l’Icsn è una rete di esperti di screening oncologici, creata dal National cancer institute (Nci) degli Stati Uniti alla fine del secolo scorso, con l’obiettivo principale di mettere insieme tutta una serie di professionisti che lavorano nel campo oncologico a livello mondiale per promuovere lo scambio di idee, esperienze, punti di vista, formazione, studi e ricerche tra chi si occupa di screening. L’Icsn rappresenta quindi una comunità di esperti che ha la finalità di implementare il dialogo, la condivisione di buone pratiche, evidenziare criticità e punti di forza e confrontarsi sugli sviluppi futuri di questa branca della medicina, fondata sulla evidence based e quindi su un approccio che segue una metodologia rigorosa condivisa tra chi vi partecipa.
Carlo Senore: vorrei aggiungere che l’Icsn sta diventando progressivamente un’organizzazione più autonoma rispetto al Nci che, pur continuando a supportarne le attività, non è più il partner principale del consorzio. Inoltre, è particolarmente interessante che in questo network si confrontino tanti esperti che lavorano su differenti linee di screening. Inizialmente, infatti, questo consorzio era incentrato essenzialmente sul cancro della mammella, che alla fine degli anni ottanta e nei primi anni novanta rappresentava il focus principale dell’attività di screening. Successivamente si sono attivati nuovi programmi di screening, attualmente sono sei, oltre a mammella, cervice uterina e colon retto si sono aggiunti anche polmone, prostata e stomaco secondo le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, e l’edizione di Torino forse è stata la prima ad avere una così ampia estensione di programmi di screening oncologici. Il meeting è quindi un contesto nel quale si presentano e discutono molte esperienze diverse che interessano la gestione e valutazione dei programmi di screening in generale evitando l’approfondimento specialistico per ogni singolo screening. Nell’incontro di Torino è emersa con chiarezza l’utilità di avere uno scambio multidisciplinare e un confronto tra professionisti che si occupano di ambiti di screening diversi ma avendo sempre come focus lo screening di popolazione, cioè un intervento di sanità pubblica che si sviluppa su diverse linee ma con degli aspetti in comune.

2.  L’edizione 2023 del meeting, dopo l’emergenza pandemica di Covid-19, su quali temi si è focalizzata?
Carlo Senore: i temi principali affrontati nelle sessioni del meeting sono stati vari, con un focus sulle innovazioni tecnologiche nel campo degli screening oncologici che in alcuni casi sono state rese più attuali dalla necessità di trovare strategie per superare l’emergenza pandemica. Un’attenzione particolare è stata data anche alle tematiche inerenti al risk-based screening, ai nuovi test utilizzati anche nei programmi di screening già esistenti, al monitoraggio di qualità, all’identificazione di strategie per raggiungere le popolazioni più vulnerabili e garantire un’equità di accesso agli screening, durante e dopo l’emergenza pandemica, e ai nuovi programmi di screening (polmone, prostata e stomaco). Inoltre, sono state organizzate sessioni specifiche dedicate alle soluzioni adottate per affrontare la pandemia di Covid-19, alle strategie di comunicazione, al confronto tra i programmi di screening organizzati e quelli opportunistici a livello internazionale, valutandone vantaggi e svantaggi nei vari contesti. Infine, nell’evento di quest’anno è stato affrontato, forse per la prima volta, il tema dell’integrazione tra i programmi di screening intesi come attività di sanità pubblica e l'attività clinica che consegue allo screening, attraverso lo sviluppo di percorsi di approfondimento diagnostico e di trattamento che coinvolgono i clinici su patologie particolari. Questa sessione parallela è stata interessante e innovativa e ha fatto emergere l’importanza di una collaborazione tra clinici e operatori di sanità pubblica.
Livia Giordano: le sessioni del meeting sono state numerose ma tutte molto armoniche tra loro. Oltre alle tematiche già citate, segnalerei la sessione sull'integrazione tra prevenzione primaria e prevenzione secondaria per sottolineare come la patologia tumorale debba essere affrontata in un’ottica più ampia, che tenga in considerazione non solo la diagnosi precoce ma anche e soprattutto la prevenzione della malattia, andando a incidere sugli stili di vita e sui comportamenti dei singoli, alcuni dei quali sono più a rischio per l’insorgenza di vari tumori. Credo che questo sia un aspetto importante da approfondire: i programmi di screening, infatti, non vanno intesi come compartimenti stagni privi di relazioni con quello che c'è prima e quello che c’è dopo ma al contrario presentano un’interrelazione molto forte con lo step precedente e cioè con la possibilità di fare prevenzione primaria e con lo step successivo e cioè con l’ambiente clinico per gli eventuali interventi terapeutici. Un'altra sessione significativa è stata quella sull’equità all’accesso ai programmi di screening, cioè offrire lo screening a tutti gli aventi diritto, una condizione non sempre facile da raggiungere. Il convegno di Torino è stato, infatti, l’occasione per affrontare il tema dell’equità nel campo degli screening a livello mondiale con esperti provenienti anche dai Paesi a basso e medio reddito (“low- and middle-income countries”) che, per motivi economici, organizzativi e di priorità sanitarie diverse, hanno maggiori difficoltà a predisporre e implementare un programma di screening. Inoltre, è stato sottolineato come alcune di queste criticità interessino anche sottogruppi di popolazioni più vulnerabili di Paesi ad alto reddito (“high-income countries”), che necessitano di un’attenzione particolare da un punto di vista organizzativo e di monitoraggio. Il confronto ha stimolato lo scambio di esperienze e la discussione di modelli da trasferire in realtà molto diverse. Infine, oltre alla sessione dedicata alla presentazione degli abstract che sono stati circa trecento, mi fa piacere ricordare che all’interno dell’evento sono stati organizzati anche dei “country corner”, cioè degli spazi in cui quattro Paesi (Giappone, Montenegro, Brasile e Burkina Faso), identificati come "interessanti” dal punto di vista dei programmi di screening, hanno potuto raccontare nel dettaglio la loro esperienza e condividerne punti di forza e criticità.

3.  In che modo, i progressi della ricerca potranno contribuire a migliorare i programmi di screening organizzati? In particolare, che ruolo avranno i biomarcatori nei protocolli di screening basati sulla stratificazione del rischio individuale?
Carlo Senore: un aspetto importante emerso durante il meeting è la consapevolezza che lo screening possa essere un ambito interessante in cui fare ricerca, finalizzata ad esempio a migliorare l'accessibilità anche favorendo l'introduzione di metodiche innovative e sostenibili in quei Paesi dove le risorse economiche sono più ridotte pur garantendo livelli di qualità adeguati. Oltre a una sessione specifica, il tema dello screening come piattaforma per la ricerca è stato trasversale a tutte le sessioni, come dimostrato dagli oltre trecento contributi presentati e dalle molte esperienze condivise sulla ricerca valutativa di diversi approcci per gli inviti agli screening oncologici ma anche per percorsi diagnostici e di approfondimento.
Livia Giordano: per quanto riguarda le innovazioni nel campo degli screening segnalerei anche una sessione dedicata ai nuovi test di screening basati sul multi-cancer test utilizzato per individuare molte tipologie di tumori o su prelievi di sangue. Su queste metodiche sono in corso molti studi senz’altro interessanti e allettanti da un punto di vista teorico, ma trattandosi di studi sperimentali i risultati a lungo termine e le applicazioni pratiche su larga scala andranno valutati con attenzione e cautela in termini di sensibilità e specificità dei test e di individuazione dei cancri intervallo. Questo significa che, ovviamente, la ricerca andrà avanti procedendo però con criteri di valutazione rigorosi, considerando che lo screening è un intervento di sanità pubblica che viene offerto a una massa enorme di persone asintomatiche. I progressi della ricerca, quindi, devono essere valutati non solo in termini di efficacia nel diagnosticare precocemente un tumore ma anche in termini di comunicazione del rischio e di altri aspetti.
Carlo Senore: allo stato attuale il valore predittivo di una serie di marcatori che sono oggetto di studio, come i polimorfismi genetici e i biomarcatori nelle feci e nel sangue, resta incerto. Al di là di queste valutazioni, il discorso relativo alla definizione di approcci basati sulla stratificazione del rischio individuale deve considerare aspetti più generali, come gli eventuali problemi che si potrebbero favorire l’esclusione di alcuni gruppi di persone dall’accesso allo screening in quanto la stratificazione del rischio comporta un carico di lavoro per la raccolta dati che non tutti i centri sono in grado di fornire. Inoltre, un approccio di questo tipo implica anche una riflessione sugli aspetti etici e sulle modalità di comunicazione del rischio che dovrebbero consentire alle persone di operare una scelta informata su dati che sono incerti e di tipo probabilistico. In ogni caso, ci sono già protocolli e dati disponibili per uno screening personalizzato con stratificazione sulla base del rischio individuale, come la storia di screening, che consente di fornire indicazioni più personalizzate in relazione per esempio all’intervallo fra un test di screening e quello successivo. L’attenzione sull’utilizzo di criteri basati sul rischio, sebbene indirizzata soprattutto ai gruppi di popolazione ad alto rischio, permetterebbe anche di identificare i gruppi a basso rischio in cui la frequenza dello screening potrebbe essere ridotta. Anche in questo caso però andrebbero valutate eventuali criticità in termini di accettabilità da parte delle persone, perché l'offerta di un test di screening meno frequente non sempre viene percepita come un vantaggio, per cui la disponibilità ad aderirvi potrebbe anche ridursi. In conclusione, il tema della personalizzazione dello screening attraverso la stratificazione del rischio è attualissimo, e anzi, già durante l’emergenza pandemica molti Paesi, per recuperare il ritardo negli screening, hanno definito delle priorità in base al rischio atteso, per esempio in relazione al numero di screening effettuati con esito negativo o ai livelli di alcuni biomarcatori. L’emergenza ha dunque imposto di selezionare intervalli diversi nell’esecuzione dei test di screening, ciò ha significato ritardare il test di richiamo per le persone a rischio più basso e al contrario ridurre il ritardo per quelle con rischio più alto.

4.  Quali azioni dovrebbero essere messe in atto per evitare l'esclusione di sottogruppi di popolazione vulnerabili?
Livia Giordano: da questo punto di vista, sicuramente è importante il monitoraggio perché ci consente di osservare le caratteristiche della popolazione e quindi di rilevarne le differenze ma per poterlo fare abbiamo necessità di avere a disposizione delle informazioni sulla popolazione che ci permettano di classificare le persone e raggrupparle in macrocategorie al fine di conoscere quali sottogruppi della popolazione partecipano di meno o di più ai programmi di screening. Nonostante esista una giustissima legge che salvaguardia la privacy delle persone, lo screening ha bisogno di avere accesso a questi dati per essere più efficace nelle azioni da mettere in campo e migliorare i programmi, oltre che a seguire le persone nel tempo. Rispetto ai sottogruppi ovviamente ce ne sono di noti, come la popolazione femminile immigrata che aderisce di meno allo screening presumibilmente per problemi culturali, di lingua e di accessibilità ai servizi sanitari. Ovviamente sapere che c’è una minore partecipazione di alcuni sottogruppi è fondamentale per mettere in atto delle strategie che favoriscano l’accesso allo screening anche in questi sottogruppi e le strategie possono essere le più varie e andrebbero condivise con chi ne sa più di noi e lavora con questi sottogruppi da più anni. La traduzione degli opuscoli nelle varie lingue è ovviamente fondamentale per comprendere cosa c’è scritto in una lettera di invito allo screening ma forse c'è qualcos’altro su cui si potrebbe intervenire, ad esempio sugli aspetti culturali e soprattutto informativi e comunicativi relativi al significato e importanza dello screening per la salute. Ribadisco quindi l’utilità di fare rete con chi nel territorio già lavora con questi sottogruppi e ha un’esperienza più lunga e approfondita rispetto alle difficoltà di accessibilità ai programmi di screening e in generali ai vari servizi, non solo sanitari, destinati ai cittadini. Vanno ricercate nuove strategie per favorire l’adesione allo screening, come la mediazione interculturale e approcci di invito alternativi, senza dimenticare che, oltre alla popolazione immigrata, ci sono altri sottogruppi di popolazione che sono più difficili da intercettare come le persone anziane con difficoltà visive. Inoltre, con il web si tende sempre di più a usare degli approcci comunicativi di invito che siano molto “smart” ma che non tutte le persone sono in grado di utilizzare. In conclusione, è fondamentale riuscire a trovare un equilibrio tra quella che è la nostra conoscenza del problema e della barriera che lo causa e condividere e sperimentare con altre figure le soluzioni e le strategie migliori.

5.  Lo screening basato sulla stratificazione del rischio è un tema che si collega direttamente a quello sulla comunicazione del rischio. In che modo ritenete debba essere gestito l’aspetto comunicativo con gli utenti?
Carlo Senore: è indubbia la difficoltà di alcune persone a utilizzare gli strumenti informatici, come i siti web, le mail o i codici QR, con la conseguenza di un’accessibilità ai servizi e ai canali informativi non immediata. D’altronde, il tema dello screening basato sul rischio individuale rende l’aspetto della comunicazione ancora più complesso, in quanto, oltre alla necessità di disporre di informazioni per la classificazione del rischio, attraverso un accesso completo ai dati raccolti nel percorso di screening, è fondamentale tradurre queste informazioni in stime che le persone possano comprendere e utilizzare per scegliere in modo consapevole. Nel meeting di Torino sono state organizzate due sessioni specifiche sugli aspetti legali dell’utilizzo dei dati e sull’ambito della comunicazione. Attualmente sono in corso alcuni studi pilota sullo screening basato sul rischio che coinvolgono i potenziali utenti, anche attraverso la partecipazione a focus group, per arrivare a definire modelli di comunicazione e contenuti che siano facilmente interpretabili e utilizzabili dalle persone.
Livia Giordano: vorrei aggiungerei che, nell’ambito della comunicazione negli screening, il nostro Paese e non solo è stato sempre molto attento a garantire il rispetto di una scelta autonoma, con questo intendo dire che ovviamente lo screening è sempre fortemente raccomandato ma ognuno, opportunamente informato, deve essere libero di scegliere. Da questo punto di vista, tutti i programmi di screening hanno cercato di mettere in atto una comunicazione trasparente e onesta su tutti gli aspetti, anche quelli negativi. Io credo che in Italia questa condizione si sia verificata e che il dibattito sia stato sempre intenso e anche molto coraggioso.

6.  Potreste condividere una riflessione sulle lezioni apprese durante la pandemia di Covid-19?
Carlo Senore: un aspetto interessante che è emerso da diversi studi internazionali, alcuni dei quali presentati anche al meeting, è la capacità di reagire meglio all’emergenza pandemica da parte di quei programmi di screening dotati di una gestione più comprensiva del percorso di screening, non limitata agli inviti e ai primi livelli ma in grado di programmare l'attività dell’intero percorso di screening e allocare le risorse per gli step successivi al primo livello, riadattando se necessario l’offerta del primo livello in funzione della possibilità di accesso agli approfondimenti diagnostici e alle misure terapeutiche. Ricordo, infatti, che in alcuni momenti della pandemia di Covid-19, gli accessi agli ospedali sono stati molto limitati, i tempi per l'esecuzione degli esami molto più lunghi e la disponibilità delle persone a recarsi nelle strutture sanitarie molto più ridotta. In definitiva, i programmi di screening dotati di una gestione organizzativa flessibile e della capacità di adattare in corsa l'organizzazione degli stessi sono stati in grado di resistere meglio e recuperare prima il ritardo accumulato. La capacità di disporre di dati per il monitoraggio e saperli utilizzare ha consentito di progettare delle strategie flessibili che tenessero conto di informazioni già esistenti come quelle sul rischio in base al livello di copertura precedente, riuscendo in qualche modo a contenere l’impatto inevitabile che la pandemia ha avuto sui programmi di screening. Il ritardo infatti si è verificato praticamente ovunque, però in molti casi contenuto entro i sei mesi, un intervallo entro il quale, in base a quello che mostrano i modelli di simulazione di impatto della sospensione dell’attività, le conseguenze della pandemia sugli screening saranno probabilmente limitate. D’altra parte, anche in Italia, ci sono stati dei programmi di screening con un ritardo superiore che ha ulteriormente ampliato le differenze che già esistevano, per esempio tra Nord e Sud Italia. In termini di accesso e capacità di offerta dei programmi, il Sud ha accumulato ritardi superiori a un anno, considerando che diversi programmi avevano con una copertura non completa già prima dell’emergenza pandemica, che ha evidenziato l’utilità di avere una buona organizzazione e un buon monitoraggio.
Livia Giordano: secondo me la pandemia è stata sicuramente un duro banco di prova per gli screening, che per qualche mese sono stati soppressi ovunque e poi riattivati con molta fatica e forse tuttora continuano a subire le conseguenze di questo stop. Potremmo affermare che siamo ancora nella fase della “convalescenza”. Personalmente penso che l’esperienza della pandemia di Covid-19 da una parte ci abbia fatto comprendere come alcuni sistemi sanitari eccessivamente rigidi possano esserlo molto meno durante le emergenze, per cui il famoso detto “se si vuole, si può” è vero, nel senso che a livello organizzativo molti servizi sanitari sono risultati molto più duttili e in grado di superare le difficoltà mettendosi in gioco. La lezione appresa è che anche i programmi di screening, se già con una base di organizzazione efficace, hanno la capacità di riadattarsi al contesto in cui operano. Dall’altra parte però abbiamo appurato che, terminata l’emergenza pandemica, i sistemi sanitari ritornano rigidi in pochissimo tempo, per cui ciò che era duttile e maneggevole durante la pandemia di Covid-19 improvvisamente ritorna molto statico e rigido, impedendoci di sperimentare e mantenere nuove strategie. Possiamo dire, in conclusione, che il Covid-19 ci ha tolto tanto e ci ha insegnato qualcosa, sia in positivo sia in negativo.

7.  L’ultima sessione del meeting internazionale si è focalizzata sui nuovi programmi di screening oncologici. Potreste illustrarci brevemente per quali tumori sono stati attivati i nuovi screening?
Carlo Senore: i nuovi programmi di screening riguardano i tumori del polmone, prostata e stomaco. Le nuove raccomandazioni del Consiglio europeo invitano a prestare attenzione a questi nuovi screening e spingono nella direzione di utilizzarli come un'opportunità di ricerca in quanto si tratta di modelli di screening in fase di definizione, per i quali disponiamo di un’evidenza di riduzione di mortalità. Il tumore dello stomaco è però un caso a parte, perché più che di un vero e proprio screening come può esserlo la gastroscopia (è il caso del Giappone) è un intervento di eradicazione dell'infezione da Helicobacter pylori. Tra l’altro, non tutti i Paesi probabilmente sono candidati a farlo perché non c’è un’incidenza così alta da giustificarlo. Il polmone e la prostata invece sono due casi interessanti sia perché c'è ancora tanta ricerca da fare sia perché queste raccomandazioni possono favorire progetti di ricerca condotti con un approccio di rete a livello europeo, affinché i programmi pilota messi in piedi approfondiscano temi aperti che riguardano soprattutto i percorsi di approfondimento, essendo ormai assodato che questi screening riducono effettivamente la mortalità. Un aspetto importante da valutare riguarda i costi per ottenere questa riduzione di mortalità e capire se possano essere ridotti utilizzando degli approcci alle diagnosi di approfondimento che minimizzino il rischio di sovradiagnosi e sovratrattamento. Introdurre questi nuovi programmi quindi è raccomandato ma in forma di progetti pilota e in questo senso l'approccio di sanità pubblica e il confronto con l’esperienza degli screening già attivi potrebbe orientare la ricerca su un approccio che tenga conto della necessità di minimizzare i danni, oltre a ottenere un beneficio che, nello screening offerto a persone sane, resta il principio di riferimento. In sintesi, la possibilità che i programmi di screening già esistenti possano operare una contaminazione positiva su questi nuovi programmi, spesso avviati più dai clinici che dagli esperti di sanità pubblica, e l'opportunità della ricerca di produrre informazioni rilevanti per programmare gli interventi futuri sono due aspetti particolarmente importanti emersi nell’incontro a Torino. Concentrandoci sullo screening del tumore al polmone, è da evidenziare che rappresenta un esempio molto particolare perché per la prima volta è basato solo sul rischio e non sull’età e anche per tutte le implicazioni etiche e di sanità pubblica di uno screening che riduce la mortalità di una patologia molto grave, che però potrebbe essere prevenuta eliminando l’abitudine al fumo, prima ancora di effettuare lo screening. Questo significa che lo screening non deve in alcun modo diventare una giustificazione per ridurre l'attenzione alle campagne finalizzate a smettere di fumare. Infatti, dal punto di vista etico e delle risorse, smettere di fumare ha un impatto sui costi per la sanità molto favorevole e, peraltro, gli screening sono più costo-efficaci se abbinati a interventi di prevenzione primaria che favoriscano la cessazione dell’abitudine al fumo. In conclusione, il messaggio importante che deve essere veicolato è che gli investimenti sugli screening devono essere supportati in egual misura da interventi sulla prevenzione primaria, un dato non così scontato perché allo stato attuale le richieste per lo screening dei polmoni in Italia sono focalizzate soprattutto sull’offerta della tac spirale più che su quella dei centri antifumo, che è invece estremamente carente e richiederebbe investimenti non inferiori a quelli destinati alla tac spirale.

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