Un programma di screening per la diagnosi precoce del tumore del polmone

 

Di Marco Zappa, direttore dell’Osservatorio nazionale screening

Ci sono diverse circostanze per cui esprimere una posizione sullo screening per il tumore del polmone è necessario e forse non procrastinabile.
L’ultima in ordine di tempo è il “Workshop per lo screening polmonare”, organizzato lo scorso 17 gennaio dal Ministero della Salute, in cui specialisti e associazioni di portatori di interesse hanno fatto il punto sull’opportunità di organizzare un programma di popolazione per la diagnosi precoce del cancro polmonare, ad oggi fra le diagnosi oncologiche più frequenti in Italia. 

Prima di questa data ci sono stati altri momenti di riflessione, interni soprattutto alla comunità scientifica, condensati nei risultati del Summit internazionale di Oncologia a Toronto a settembre 2018 e nell’articolo pubblicato su The Lancet Oncology nel novembre 2017 “European position statement on lung cancer”, in cui 22 specialisti fanno appello alla Commissione europea perché vengano pianificati e attuati programmi di screening per le persone a più alto rischio di tumore al polmone, i forti fumatori.

Il tumore polmonare

Il fumo di sigaretta è il più rilevante fattore di rischio per il carcinoma del polmone, ad esso, infatti, è attribuibile l’85-90% di tutti i tumori polmonari. Il rischio aumenta con il numero delle sigarette fumate e con la durata dell’abitudine al fumo.

Per valutare l’esposizione diretta al fumo di tabacco nella storia di una persona si considera l’unità di pack-year, la media di pacchetti da 20 sigarette fumati al giorno in un anno. Vengono considerati forti fumatori coloro che hanno una media di 20 pack/year, che hanno cioè fumato 20 sigarette al giorno per 10 anni o 10 sigarette al giorno per 20 anni.

I numeri del cancro in Italia, il censimento ufficiale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica-AIOM, dell’Associazione Italiana Registri Tumori-AIRTUM, di Fondazione AIOM e di PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), stimava per il 2018 circa 41.500 nuove diagnosi di tumore del polmone in Italia, delle quali oltre il 30% nel sesso femminile. 

Efficacia dello screening: le evidenze scientifiche

Ci sono prove di evidenza abbastanza forti che mostrano l’efficacia della diagnosi precoce attraverso lo screening nel diminuire la mortalità per tumore polmonare. L’utilizzo della tomografia computerizzata (CT) a basso dosaggio permette di individuare piccole neoplasie polmonari in pazienti che non presentano sintomi, determinando un maggior numero di pazienti operati in stadio precoce.

Nel 2011 lo studio statunitense NLST (National Lung Screening Trial), in cui erano state coinvolte oltre 50 mila persone, fu sospeso perché l’evidenza di efficacia era tale - una riduzione del 20% della mortalità per tumore al polmone - da rendere non etico continuare a non screenare il gruppo di controllo con tecnica CT scan a basso dosaggio.
Di fronte a questi risultati negli Stati Uniti le principali agenzie di sanità pubblica hanno indicato lo screening fra le linee guida di prevenzione al tumore rivolte ai forti fumatori. In Europa invece, durante il consensus meeting di Pisa del 2011, si è deciso di aspettare i risultati dei 7 trial pilota che erano già attivi in diversi Stati europei. I risultati sono adesso disponibili per tutti gli studi eccetto lo studio clinico belga-olandese NELSON, il più grande fra gli studi randomizzati europei, i cui esiti, non ancora pubblicati, sono stati presentati durante il Summit di Toronto.

I trial europei e i risultati finora resi noti dello studio NELSON hanno confermato che l’intervento di screening con CT a basso dosaggio porta a una riduzione significativa della mortalità, in misura anche superiore a quanto valutato dallo studio statunitense. Hanno anche permesso di stabilire degli ulteriori criteri per massimizzare i benefici dell’intervento e ridurne i rischi. Il protocollo migliore sembra proprio quello dello studio NELSON. Uno dei problemi principali riguardo lo screening polmonare è l’alta presenza nei grandi fumatori di noduli che non sono sempre destinati a diventare sintomatici, per cui c’è il rischio di avviare a procedure invasive moltissime persone senza che sia realmente necessario. Il protocollo NELSON si basa sulla visione tridimensionale dei noduli e sulla valutazione del loro tempo di raddoppiamento, e sembra offrire una modalità di discernimento fra i noduli che vanno approfonditi e quelli che non vanno approfonditi particolarmente efficace.

Programma di screening: le questioni aperte e il percorso auspicabile

Tutte le evidenze vanno dunque a favore della pianificazione di programmi di screening rivolti alla popolazione più a rischio di sviluppare un carcinoma polmonare.

Questi rappresenterebbero l’occasione per integrare interventi pubblici di diagnosi precoce, con iniziative ben strutturate di prevenzione primaria. I programmi di screening dovrebbero certamente essere innestati all’interno di campagne di cessazione del fumo, in cui il counseling antifumo venga reso obbligatorio per tutte le persone che vogliono aderire allo screening (pur lasciando ovviamente libera la scelta di continuare a fumare). 

D’altra parte, ci sono alcuni punti che per la natura per certi versi “diversa” di questi programmi è bene continuare ad approfondire.

Mi riferisco, innanzitutto, alla necessità di valutare con esattezza logistica, costi e risorse radiologiche, che oggi sono carenti in Italia, per coprire il fabbisogno richiesto da un programma di popolazione. Esistono modellizzazioni di costo-efficacia di cui occorre verificare i presupposti attraverso progetti pilota, per essere ragionevolmente certi che il tipo di risorse a disposizione sia quello necessario.

Inoltre, bisogna considerare che per la prima volta avremmo dei programmi di screening con una popolazione selezionata non in base all’età ma in base al livello di rischio individuale legato a un comportamento. Questo porta a considerazioni sia in termini organizzativi, legati alle metodologie con cui individuare e coinvolgere la popolazione di forti fumatori, sia in termini etici e comunicativi, dovendo stabilire un livello soglia immediatamente sotto il quale la popolazione esposta al rischio (considerato esclusivamente come fumo da sigaretta e non, ad esempio, come esposizione a fonti inquinanti) non possa fruire dell’intervento.  L’esperienza degli altri programmi di screening oncologico ci insegna la necessità di approfondire con cura i modelli di coinvolgimento e comunicazione della popolazione perché questi possano dirsi efficaci.

Infine, abbiamo bisogno di validare sul campo i protocolli di diagnosi, in particolare rispetto ai falsi positivi e alla sovradiagnosi, studiati finora all’interno di sperimentazioni cliniche.

Il percorso che mi sembra rispondere in maniera più efficace a queste sfide è quello di HTA, così come proposto nella riunione del 17 gennaio dal Ministero della Salute, unito a progetti pilota condotti in alcune Regioni, che possano “testare” sul campo le sfide e bisogni concreti nell’organizzazione di questi programmi e le risposte da parte della popolazione.

La storia degli screening ha insegnato che il valore aggiunto di questi strumenti di salute pubblica sta proprio nel garantire un accesso omogeneo ed equo alla prevenzione e nel permettere la produzione e la disponibilità di dati uniformi e confrontabili sugli esiti. Per questo è importante lavorare a iniziative omogenee che siano monitorate in maniera omogenea, come parte integrante di una stessa attività, in modo che possano dare informazioni utili per tutti.